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L'ideale tenzone di Verdi con Schiller

di Elisabetta Torselli
  Don Carlo
Data di pubblicazione su web 03/12/2004  
Ci sembra oramai universalmente diffusa la convinzione che Don Carlos/Don Carlo sia, se non il capolavoro assoluto di Verdi, qualcosa che compete da pari a pari, quanto a valori musicali, con Otello e Falstaff. Si comprende bene che il Teatro del Maggio ambisse ad un grande Don Carlo, avendo come direttore principale Zubin Mehta, alle cui corde è particolarmente adatto questo Verdi maturo, che cammina attraverso armonie crepuscolari, peregrine, avanzatissime, apocalittiche, in una ricchezza e bellezza d'invenzione musicale cupa e assieme sfolgorante, che disegna arcate e strutture ampie, complesse, distese; eppure senza "wagnereggiare", come pur si disse allora, perché la formulazione di fondo rimane precisa, economica, del tutto verdiana insomma, anche nel lavorìo più complesso e vastamente concepito del materiale e nella ricchezza di rimandi interni che dà alla partitura una mirabile coerenza. E si può dire che è stato un esito di alto livello, anche se possono essere avanzate delle riserve sulle scelte di fondo che hanno guidato quest'edizione fiorentina. Per nessuna opera verdiana gli orientamenti e le acquisizioni dell'esegesi e dell'interpretazione pongono una simile quantità e rilevanza di questioni testuali, e dunque di scelte da fare quando si va alla messinscena.

Quale Don Carlos/Don Carlo? In cinque atti o in quattro? In francese o in italiano? Con il ballabile della Pellegrina o senza? Scegliendo un'edizione avallata nella sua integrità e compiutezza dallo stesso Verdi (Parigi 1867, Milano 1884, Modena 1886), oppure considerando tutti i relativi, copiosissimi materiali - compresi i famosi numeri tagliati dallo stesso Verdi alla prova generale parigina, solo da pochi lustri rinvenuti negli archivi dell'Opéra dai curatori dell'edizione critica - come tappe di una sorta di verdiano work in progress, e dunque integrando e contaminando a proprio piacere le diverse edizioni, come si è fatto spesso in edizioni importanti recenti e anche qui a Firenze? Ce n'è in abbondanza, insomma, per le inclinazioni di Dramaturg di chi fa le scelte di programmazione in un teatro d'opera importante. I Don Carlos/Don Carlo possibili si sono pertanto, negli ultimi anni, moltiplicati fino alla bizzarria: pensiamo a Claudio Abbado che ha fatto la versione di Modena... in francese!




Carlo Guelfi e Fabio Armiliato (edizione in 5 atti)
Carlo Guelfi e Fabio Armiliato (edizione in 5 atti)


 


 
Tuttavia, ci sembra, restano due i prototipi, ossia Parigi 1867 in francese e in cinque atti, e Milano 1884 in italiano e in quattro atti. Il Don Carlos "primogenito" Parigi 1867 è una rimodulazione verdiana del modello francese del Grand-Opéra. L'aggiunta dell'atto di Fontainebleau, che mette in scena l'antefatto - solo accennato nel corso del testo teatrale di Schiller - del fidanzamento di Carlo e Elisabetta, impedito dal candidarsi come sposo del padre di Carlo, Filippo, obbedisce appunto alle logiche di quel modello, altrimenti di questo antefatto non si spiegherebbe assolutamente l'esigenza. E' necessario, si è detto, per capire il conflitto Carlo/Filippo e giustificare moralmente la passione di Carlo per Elisabetta, per far meglio sentire che cosa è stato strappato all'Infante, qual è la sua ferita, la sua perdita, il suo lutto. Ma il conflitto padri-figli è immanente all'universo della rappresentazione a prescindere da qualsiasi motivazione: Schiller infatti non ne sentì la necessità, pur avendo ben presente gli autorevolissimi archetipi teatrali al riguardo (il mito tebano sofocleo è appassionatamente analizzato nella prefazione al suo dramma Die Braut von Messina). E' appunto nel Grand-Opéra che è richiesta la molteplicità di ambientazione e un gioco dei conflitti e delle passioni da svilupparsi su uno sfondo storico o pseudostorico trasformato in décor, da mettere adeguatamente in risalto: in questo caso il conflitto fra Francia e Spagna, con chiaro omaggio alla douce France di Fontainebleau (l'opera, ricordiamolo, fu commissionata per l'Esposizione Universale di Parigi del 1867).

Don Carlos fu presto tradotto in italiano come Don Carlo, purtroppo avendo come difetto la cattiva qualità del libretto, non crediamo per incapacità dei traduttori, quanto perché la traduzione di un testo per musica non è mai, semplicemente, tale, ma è una "versione ritmica" che deve adattare l'originale, come in un letto di Procuste, alle figure musicali della partitura e agli accenti della lingua in cui si traduce. Lo si è potuto verificare anche stavolta a Firenze leggendo ed ascoltando quanto fatto da Achille de Lauzières, che tradusse già nel 1867 la versione parigina e a cui si deve pertanto il testo dell'atto di Fontainebleau, da Angelo Zanardini per la revisione librettistica dei successivi quattro atti, e infine da un contemporaneo, Piero Faggioni, per il coro dei boscaioli all'inizio dell'atto di Fontainebleau, che è appunto uno dei numeri riscoperti di recente negli archivi dell'Opéra. Comunque sia in questo formato dei cinque atti l'opera venne eseguita e conosciuta in tutta Europa fino a quando, nella nuova versione Milano 1884, Verdi soppresse l'atto di Fontainebleau. E' questa, Milano 1884, la versione di gran lunga prediletta da chi scrive nonostante i difetti librettistici di cui si diceva.


 

Paata Burchulazde e Roberto Scandiuzzi
Paata Burchulazde e Roberto Scandiuzzi

 

Restano naturalmente in Milano 1884 situazioni tipicamente Grand-Opéra (e infatti non presenti in Schiller se non come accenni e cose riferite) come la scena dell'autodafé; ma il conflitto senza quella "glossa al conflitto" che è Fontainebleau ci pare risulti più intimo, oscuro, irredimibile. Soprattutto in Milano 1884 c'è una mirabile simmetria fra inizio e fine, ambedue sulla tomba di Carlo V a San Giusto (il che pone il conflitto Filippo - Carlo sotto l'ombra virtuale ed inquietante di qualcosa di preesistente, perché Filippo si è fatto vecchio aspettando il trono dal padre Carlo V), ripetendosi nell'ultimo quadro, fin dal corale degli ottoni iniziale, la musica del coro dei frati "Carlo il morto imperator / non è più che muta cenere" (che appunto, nell'edizione milanese in quattro atti, risuona in apertura), inscrivendo tutta la vicenda in un orizzonte spirituale di assoluta cancellazione dell'umano, che deve farsi muta cenere di fronte all'imperscrutabile e remota volontà del potere e di Dio. Ma le esitazioni sono giustificate dalla bellezza del materiale musicale che così resterebbe tagliato fuori, e soprattutto, in una concezione oramai drammaturgicamente orientata ai nessi motivici di marca "wagneriana", dalla ricchezza degli spunti musicali che dall'atto di Fontainebleau si disseminano sulla partitura intera. Lo stesso Verdi avrebbe infatti reintegrato l'atto di Fontainebleau nella cosiddetta "versione di Modena" del 1886.

Ha un doppio DNA il Don Carlos/Don Carlo: Grand-Opéra e insieme lacerante trascrizione di un conflitto immane, inacerbito dal contesto storico-politico: padre-figlio, oppressione-libertà, morte-vita, Spagna-Fiandre. Come Verdi si muova in Don Carlos/Don Carlo nelle strutture del Grand-Opéra per farne con la musica qualcosa di ricco di senso, di profondamente giustificato dalla verità teatrale e profondamente suo, lo vediamo, ad esempio, nella contrapposizione dei due quadri di San Giusto del secondo atto 1867 che diventa primo atto 1884. Una contrapposizione che pure obbedisce apparentemente ad una logica operistica spettacolare esplicita: maschile-femminile, austero-rilassato, grave-lieve; prima, la tomba di Carlo, il cupo salmodiare dei frati (e il marasma morale di Carlo, l'impossibilità per lui della rinuncia, della sottomissione ad un orizzonte spirituale di assoluta cancellazione dell'umano, che deve farsi muta cenere di fronte all'imperscrutabile e remota volontà del potere e di Dio); poi, la grazia delle donne, Eboli che canta la Canzone del Velo, la canzone saracena. Questa canzone in Schiller era una semplice didascalia ("la principessa, vestita di un abito dal taglio eccentrico ma incantevole, canta accompagnandosi col liuto") che introduce una scena di dialogo appartato fra Eboli e un paggio (II, 6). In Verdi diventa un simbolo: tutto ciò che questa fosca Castiglia ultracattolica ammantata di nero ha voluto annullare si ribella, si adorna di seduzioni moresche - di tutto ciò che dalla Spagna è stato scacciato e represso - e canta negli arabeschi vocali della più grande dark lady del teatro verdiano. E' questa la verità di Verdi. E come sempre nella grande drammaturgia musicale si semplifica e si radicalizza ciò che è presente nelle fonti, si perde qualcosa per guadagnare molto altro con la musica.
 

Roberto Scandiuzzi (edizione in 5 atti)
Roberto Scandiuzzi (edizione in 5 atti)

 


Forse è questo, lo ribadiamo, il Verdi più adatto alle corde di Mehta, per la vastità della concezione, per i valori della partitura orchestrale, per la varietà degli atteggiamenti interpretativi appropriati alla messa in luce delle molte facce del Don Carlo: la brillantezza seducente e molto francese della Canzone del Velo, un po' di fracasso Grand-Opéra (un po' troppo forse) nella scena dell'autodafé, ma anche e soprattutto l'espressione spoglia e misurata della grande pagina di Filippo, i colori luttuosi dell'impressionante preludio dell'ultimo atto. Mehta non punta mai o quasi alla lacerazione, all'acme, né altera i tempi che ha scelto per assecondare gli slanci e gli affondi del palcoscenico: nel duetto Filippo - Grande Inquisitore le vibrazioni del dramma sembrano sublimarsi in una lettura quasi astratta e metafisica, nel quartetto Filippo - Elisabetta - Eboli - Posa in una struggente mestizia. Chi predilige le interpretazioni più vibranti dei grandi verdiani italiani del passato e del presente potrà trovare in questa visione una punta di compassatezza. Riteniamo invece interessantissima quest'angolazione interpretativa peculiare, larga e distesa, che ci sembra assimilare la misura verdiana a quella di altri repertori prediletti da questo maestro (Brahms e Mahler, ad esempio). Per completare la cronaca musicale, purtroppo i due cast che si alternavano nelle due versioni in quattro e i cinque atti avevano molti punti deboli, che riflettono le attuali difficoltà a comporre un cast soddisfacente per questo capolavoro verdiano anche nei teatri più importanti. Il primo Carlo, Fabio Armiliato, ha sfoderato talvolta una bella presenza vocale negli acuti, ma il resto della tessitura è irrigidito come in chi ha cantato troppo nelle arene, e il personaggio proprio non c'è; meglio, anche se con una certa esuberanza di accentazioni quasi veriste, il secondo Carlo, Mark Haddock. Mortificanti per ragioni diverse tutti e due i Rodrighi, Carlo Guelfi e Lucio Gallo. All'Elisabetta nobile e struggente, ma decisamente insufficiente come consistenza drammatica nella decisiva prova di "Tu, che le vanità", di Barbara Frittoli, si è alternata quella di maggior spessore e ottima organizzazione vocale, ma di minor fascino scenico, di Adrienne Pieczonka. Citiamo ancora Roberto Scandiuzzi, Filippo grandioso ma un po' ruvido, e René Pape, più elegante e vocalmente fresco ma più carente nel registro grave e anche troppo intimista nel grande soliloquio "Ella giammai m'amò"; Paata Burchuladze e Ayk Martirossian si sono alternati nel ruolo del Grande Inquisitore, di cui Burchuladze è veterano; e così, com'era del resto nelle previsioni, le trionfatrici sono state le due Eboli, due cantanti possenti e trascinanti come Violeta Urmana e Dolora Zajick.

Si è discusso se si è fatto bene o no a scegliere per questo Don Carlo fiorentino la celebre messinscena di Luchino Visconti per Roma del 1965, già recentemente riproposta dall'Opera della capitale e qui ripresa da Joseph Franconi Lee (per l'edizione in quattro atti; l'atto di Fontainebleau invece è stato realizzato a Firenze sulla base dei bozzetti superstiti di un'altra messinscena viscontiana del Don Carlos al Covent Garden). L'operazione ha i pregi e i limiti di tutte queste riprese viscontiane e propone, per ciò che riguarda scenografia e costumi, uno spettacolo profondamente inattuale, ma forse affascinante proprio per questo. Dunque sono otto quadri e tutti da montarsi all'antica, a braccia e a martellate: niente scene geometriche e modulari che scorrono agilmente per opera di macchine e binarietti e si trasformano a vista. Questo significa per la versione in cinque quadri che fra intervalli e cambi di scena si attaccava alle sette e si finiva quasi all'una; più che una questione di durate, è una questione di continua interruzione del flusso drammatico a cui forse il pubblico di oggi non è più abituato; apprezza, magari, le citazioni figurative eleganti (come le carceri piranesiane evocate nel quadro della prigione o i pennacchi svettanti sulle armature brune da rembrandtiana Ronda di Notte), ma un po' si stufa.


 

Edizione in 5 atti
Edizione in 5 atti

 

Certo poi lo stesso pubblico resta a bocca spalancata di fronte al fosco splendore funebre spagnolesco della scena della tomba di Carlo V a San Giusto, e applaude a scena vuota, come certo non capiterà mai nelle messinscene minimaliste, stilizzate, sottrattive di oggi; e anche questo è teatro. Ma è comunque curioso che il teatro d'opera di regìa, di cui Visconti è storicamente uno degli instauratori, finisca in questo paradosso di un teatro di regia senza regista, visto che purtroppo il regista non è più tra noi. Ci sembra inevitabile pertanto che la regia si traduca nella riproposizione più esteriore di ciò che è riproducibile, cioè, ad esempio, delle manovre di coro e figuranti nelle scene di massa, che ci sono sembrate peraltro improntate talora ad un cerimoniale quasi irreale, talora a compiacimenti pseudorealistici privi di senso, o a tutte e due le cose insieme come nella scena dell'autodafé, fra cortei e vessilli e pennacchi e gli sgherri dell'Inquisizione in cuoio nero sado-maso che fustigano gli eretici. Incomprensibile la soluzione per il finale, non sappiamo se viscontiana o no ma incomprensibile: qui Carlo sparisce o forse sgattaiola via sotto il roteare delle tonache di un gruppo di monacelli: la tomba e l'apparizione sono, a quanto pare, tutto un trucco, ma di chi?

Concludiamo riferendo del benissimo orchestrato happening di protesta con cui le maestranze del Teatro del Maggio hanno sostituito le minacciate, più radicali agitazioni che negli stessi giorni si sono viste in altri teatri italiani: in tutte le recite i tecnici hanno montato a sipario aperto il secondo quadro di San Giusto, con la bella prospettiva di colonne del chiostro, e niente avrebbe potuto esaltare allo stesso modo il fascino di questa scenografia prospettica come oramai non se ne vedono più. E intanto erano piovuti dalle gallerie volantini bianchi, rossi e verdi, con il ritratto famoso di Verdi vecchio in sciarpa e cilindro come sfondo al celeberrimo acrostico del nostro Risorgimento, qui diventato Viva V(ogliamo una) E(conomia di) R(ilancio) D(elle) I(stituzioni liriche): impagabile citazione da Senso, questo volantinaggio dal loggione, perfettamente intonato al clima viscontiano dello spettacolo.

Don Carlo
opera in cinque/quattro atti


cast cast & credits
 
trama trama
 

Il libretto in rete



Mark Haddock (edizione in 4 atti)
Mark Haddock
(edizione in 4 atti)

 

 


 


 


 



Adrienne Pieczonka (edizione in 4 atti)
Adrienne Pieczonka
(edizione in 4 atti)


 

 


 

 

 


 


 



Fabio Armiliato e Barbara Frittoli (edizione in 5 atti)
Fabio Armiliato e
Barbara Frittoli
(edizione in 5 atti)


 

 

 

 


 

 

 

 



 

Carlo Guelfi (edizione in 5 atti)
Carlo Guelfi
(edizione in 5 atti)
 

 

 

 


 

 

 

 

 



 

Roberto Scandiuzzi (edizione in 5 atti)
Roberto Scandiuzzi
(edizione in 5 atti)


 

 
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