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Brando,
il sentimento fisico del corpo


di Marco Luceri
  Marlon Brando (Ultimo tango a Parigi)
Data di pubblicazione su web 06/01/2005  
Marlon Brando è morto da gigante. Come tutti i giganti ha saputo costruire la sua leggenda fino alla fine. Se n'è andato nel mistero, in una calda notte d'estate, a Los Angeles, sul letto di un ospedale; una morte banalissima, a ottant'anni e sotto il peso vistoso di centocinquanta chili. Eppure, chi di noi, alla notizia della morte, non l'ha immaginato morente altrove, in un luogo lontano ed assoluto (proprio come era lui), magari a Tetiaroa, il suo atollo perso nel Pacifico? E', questo di fare della propria vita una leggenda, un potere che forse solo il cinema riesce a metabolizzare in immagini perenni, in icone. Già, l'immagine, il mito. Perché lui é stato e sarà per sempre un autentico mito, un'altra icona immortale, forse l'ultima, del Novecento. Come Picasso, i Beatles, Marilyn Monroe, Pelè.

Figlio dell'America stordita ed avventuriera, quella della Grande Depressione e della Guerra, il giovane Marlon fa parte di una generazione destinata a sconvolgere non solo lo star-system patinato di Hollywood, ma l'intera storia del cinema e del costume sociale. Lui, il divo che riesce a superare il divismo. Lui, l'uomo, l'artista, che riesce a superare il modello. Marlon Brando è stato innanzitutto questo, uno straordinario concentrato di arte ed intelligenza, di capacità mimetiche e di istrionismo, di dedizione e di sregolatezza, di forza virile e di dolcezza sensuale. Marlon Brando arriva al cinema abbastanza tardi. La dimensione del teatro lo cattura fin da giovanissimo (a sedici anni) e lo proietta già tra gli anni Trenta e i Quaranta ad essere riconosciuto come uno dei maggiori interpreti del Metodo, la tecnica di recitazione codificata da Stanislavskj e importata in America dall' Actor's Studio di Lee Strasberg. Proprio all'inizio dei Quaranta incontra nel suo percorso di formazione un grande maestro del teatro d'avanguardia, Erwin Piscator, fuggito dalla Germania messa a ferro e fuoco dai nazisti. Nella scuola da lui fondata insieme a Stella Adler, la Dramatic Workshop, Brando, coniugando due dimensioni recitative ed etiche profondamente differenti (la spiritualità interiore di Stanislavskj e la spersonalizzazione socio-politica di Piscator), costruisce i presupposti del suo mito di attore e di uomo, fondato su di un senso mai banale ed eticamente profondo della realtà vissuta. 
 

Marlon Brando (Giulio Cesare)
 

Tre almeno i ruoli memorabili della sua breve, ma folgorante carriera di attore teatrale: il romantico Sebastian ne L'aquila a due teste di J. Cocteau (accanto a Tellulah Bankhead), il giovane poeta Marchbanks in Candida (con Katherine Cornell) di G. B. Shaw e soprattutto Stanley Kowalski in Un tram chiamato desiderio di Tennesse Williams, un testo ed uno spettacolo che cambiano radicalmente la storia di Broadway e del teatro americano. Brando, con addosso solo una canotta sudata e un paio di jeans sudici, riesce ad andare oltre le ferree regole stanislavskiane ed inventa un nuovo tipo di realismo recitativo, quello che libera oltre i limiti la potenza erotica della fisicità. Per primo porta sulla scena il richiamo sessuale che si fonda sulla tensione emotiva, quella virilità che traduce, trasforma le psicologie dei personaggi in comportamenti. Una sorta di sentimento fisico del corpo che riesce ad andare oltre la mente, oltre i riflessi, per investire l'istinto, il supremo guizzo creativo dell'attore (sono forse queste le qualità maggiori che impressionano Visconti, e lo inducono negli stessi anni ad imporre il testo di Tennesse Williams alla compagnia di cui è regista, quella di Rina Morelli e Paolo Stoppa).

La sfida dell'erotismo fisico aprirà poi la strada alla rivoluzione musicale del rock 'n roll con Elvis Presley e contribuirà alla creazione di due altri attori mitici come Marilyn Monroe e James Dean. Brando apre la strada, dunque, e decide il passaggio al cinema, quel fantastico mondo che, a differenza del teatro, proietta i suoi divi su uno schermo, rendendoli, anche fisicamente, giganteschi in un'immagine fissa ed eterna. Dopo la prima parentesi di Uomini (1950, di Fred Zinnemann) nel 1951 Stanley Kowalski viene portato sullo schermo grazie al combattivo regista Elia Kazan, che riesce ad imporre alla Warner lo stesso cast della produzione teatrale di Un tram chiamato desiderio: oltre a Brando, Vivien Leigh, Kim Hunter, Karl Malden.

Il sodalizio con Kazan gli regala il primo Oscar nel 1954 con Fronte del porto in cui dà vita ad un personaggio strano, lunatico, a tratti paradossale (proprio come era nella vita reale) che resta memorabile nella scena in cui, pesto e barcollante per il sangue, si avvia alla chiamata per il lavoro. Sembra veramente un altro mondo, quello dei portuali in lotta, rispetto alle facili storie hollywoodiane; questo film segna il primo passo di una nuova era, quella dei Brando, appunto, dei Newman, dei Dean. Una generazione, questa, che si lascia alle spalle l'età dell'oro e che si sporca le mani nel fango dei conflitti sociali e generazionali. Il cinema americano prende un nuovo respiro, una nouvelle vague ante litteram fa soffiare una ventata di freschezza virile ed erotica sui meccanismi immobilizzati dell'America post-maccartista; il volto di questa nuova, giovanile sfrontatezza è quello de Il selvaggio che crea il mito del ribelle in giubbotto di pelle e dalla moto roboante (ma prima di questa prova Brando giganteggia portando sullo schermo per Mankiewicz un altro classico assoluto, il Giulio Cesare shakespeariano e nel 1959 si misura con Anna Magnani in Pelle di serpente).


Marlon Brando (Fronte del porto)
 

I suoi anni Sessanta si aprono con lo strano caso del film mancato con Stanley Kubrick. Il regista newyorkese, dopo aver girato Spartacus (1960) con Kirk Douglas, lo cerca per scrivere con lui un western atipico e visionario (una sorta di rilettura della storia di Billy Kid), ma il progetto fallisce per cause misteriose. Tracce di questo lavoro incompiuto si possono ritrovare ne I due volti della vendetta, film di cui Brando, oltre ad essere protagonista, firma anche la regia. Western dalle fosche tinte, feroce e sanguinario come non mai, precede di poco Gli ammutinati del Bounty (1962), girato nei mari del Sud, in cui interpreta il ruolo di un ufficiale che guida la rivolta dei marinai su un vascello inglese del '700. Durante le riprese conosce la giovane indigena Tarita, decide di sposarla, di comprare un atollo nelle vicinanze e di chiudersi per sempre nel suo mito. Fa parte del suo modus vivendi la bizza anarchica (assolutamente contraria alla consuetudine hollywoodiana) di prendersi lunghe pause dalle scene e dai riflettori. E' anche questo un potere che hanno avuto sempre e solo i grandi e lui, già a metà dei Sessanta sa di esserlo. 

E sa anche che il cinema ha assolutamente bisogno di lui. Infatti, dopo alcuni piccoli lavori, Gillo Pontecorvo lo cerca per fargli interpretare l'avventuriero di Queimada (1969). Un'altra storia di avventure e rivolte, con tantissimi contrasti sul set, come proprio in questi giorni ha ricordato lo stesso Pontecorvo: "Era straordinario. E poi era un appassionato di cinema: metabolizzava la sua parte al punto che portarlo a quello che il regista voleva significava sudare quattro camicie. Detto questo era anche un professionista serissimo: si batteva fino alla morte affinché andasse in porto la sua versione della parte, ma alla fine si sforzava al massimo per fare quello che gli si chiedeva". Esagerato, eccessivo, testardo come non mai. Eppure Brando capisce che l'incontro con il cinema d'autore europeo è la più fresca àncora di salvezza per un gigante come lui, che altrimenti presto si sarebbe trasformato, involontariamente, nel simulacro di se stesso. Hollywood lo ha sempre fatto con i suoi divi assoluti.

E' su questa scia d'intenti che nel 1972 accetta la parte di Paul in Ultimo tango a Parigi, il film scandalo di Bernardo Bertolucci. In coppia con Maria Scheneider dà vita ad una morbosa e decadente parabola di erotismo e dissoluzione verso la morte, riportando sul grande schermo anche il mito del nomadismo internazionale dell'americano. La sua è una morte a Parigi fatta soprattutto di silenzi. Brando scopre e fa definitivamente sua la tecnica che solo la Garbo (e forse Chaplin) era riuscita a realizzare a pieno, e cioè la capacità di rendere i silenzi e le pause più importanti delle parole; nelle stanze del desolato appartamento parigino Brando riesce, con un solo sguardo, con un solo breve ed impercettibile movimento, a reggere la scena silente per minuti interi, giganteggiando, addirittura esagerando. Ma non è l'istrionismo compiaciuto di un divo, è la sua grandezza. E la grandezza di un attore, si sa, si misura dalla sua capacità inventiva.


Marlon Brando (Apocalypse Now)
 

A tal proposito il 1972 è davvero l'anno delle interpretazioni memorabili: da Parigi a New York, da Bertolucci a Coppola, da Paul al Don Vito Corleone de Il padrino (accanto ad un cast stellare, dal giovane Al Pacino ai già navigati Robert Duvall e James Caan). Brando si inventa uno straordinario dialetto siculo-americano e si invecchia il volto riempiendosi le guance di Kleenex; non è una cosa da poco perché così facendo obbliga chiunque voglia parlare con lui ad inchinarsi, ad omaggiarlo, per poter ascoltare gli ordini ed i consigli che impartisce la sua flebile voce; è la riverenza tributata ad un capo assoluto, ad un vecchio re quasi irraggiungibile, ad un arbitro del bene e del male, ad un padrone della vita e della morte. E' il preludio che un addio sta arrivando, infatti dopo Missouri (1976, di Arthur Penn, con Jack Nicholson), Brando si immerge nell'apocalittica odissea post-moderna di Coppola, Apocalypse now (1979). Appare solamente nella terza ed ultima parte del film, eppure il colonnello Kurtz aleggia, come un temuto spettro onnipresente, lungo tutto il viaggio all'inferno che compie quell'ufficiale da quattro soldi interpretato da Martin Sheen. La sua apparizione è quella dell'ultimo dinosauro sepoltosi nella giungla della civiltà e della coscienza. E' il magistrale gioco di luci ed ombre creato da Vittorio Storaro sul suo volto a consegnare al cinema il personaggio più colossale, gigantesco, esagerato e folle della sua storia. Nessuno ha più osato tanto. Nessuno è stato più grande. E non può che essere sua la voce che chiude l'Apocalisse recitando la macabra nenia "l'orrore, l'orrore".

Dopo il film di Coppola, Brando tra il 1980 (La formula) e il 2001 (The score) gira altri dieci film. In nessuno di questi riesce a raggiungere la grandezza e l'originalità del passato. I debiti, la cattiva situazione finanziaria, le disgrazie familiari lo spingono ad accettare parti che lo fanno spesso apparire come un simulacro di se stesso, ridotto ad una buffa caricatura del suo mito, proprio ciò da cui aveva sempre cercato di fuggire. Lo star-system spesso dimentica che i suoi divi sono soprattutto uomini. Ed è anche per questo che, al di là dei discutibili meriti artistici della sua ultima fase, va reso a Marlon Brando il merito di essersi confrontato con due giovani attori che alla sua straordinaria lezione si rifanno: Johnny Depp ed Edward Norton. Stiamo parlando di due nuovi mostri sacri di Hollywood, naturalmente. L'incontro con Depp avviene nel 1995, sul set di Don Juan de Marco maestro d'amore, una grottesca rilettura del mito del Grande Seduttore, liberamente tratta da Lord Byron. Il film non è di quelli che restano nella memoria, ma Depp, davanti al maestro (irriconoscibile), mette a frutto molto bene quell'immagine da "Nuovo Selvaggio" che si è costruita in questi anni. Sregolato, eccessivo, istrionico come Brando, Johnny Depp è oggi più che mai il volto della Hollywood off. 


Marlon Brando (Il padrino)
 

Basta una carrellata delle sue più celebri interpretazioni (Edward mani di forbice nel film omonimo, Gone Watson in Minuti contati, Donnie Brasco nel film omonimo, Raoul Duke in Paura e delirio a Las Vegas e George Jung in Blow) per capire come le scelte di Depp siano indirizzate sempre verso quelle parti che esigono un forte rigore creativo, rifuggendo dalla banalità e dall'autocompiacimento. E' stata questa la lezione che Brando ha lasciato ai più giovani. E ciò vale anche per Edward Norton (insieme a Robert De Niro è nel cast dell'ultimo film interpretato da Brando, The score), non a caso ormai riconosciuto come il nuovo campione del Metodo di Stanislavskij. Basterebbero su tutte le magistrali prove regalateci in Fight club (1999, di David Fincher) e ne La 25° ora (2003, di Spike Lee) per fugare ogni dubbio sulla grandezza interpretativa di Norton e sulla sua notevole capacità di mimesi creativa.

La scia d'insegnamenti lasciata da Marlon Brando probabilmente si arricchirà di nuovi nomi e nuovi volti, se non altro per giustificare a posteriori ciò che una volta disse Al Pacino, e cioè che "recitare con Marlon Brando era come recitare con Dio". Eppure questo Dio ci ha spiazzati fino alla fine, regalandoci qualche anno fa forse la sua ultima grandissima interpretazione, ma non al cinema, bensì nello spot televisivo di una nota compagnia telefonica italiana. Se ne stava lassù, seduto in cima ad un dirupo, vestito di nero, con un immenso paesaggio montano ai suoi piedi. Guardava, alzava la testa e sogghignava sornione, mentre la sua voce off ripercorreva in meno di un minuto la sua vita. Un lirismo assoluto, sembrava davvero un Dio, nel suo silenzio lontano. Eppure la sua voce c'era e c'è tuttora: è la voce di chi ha identificato per quasi un secolo il mostro titanico del Novecento, e cioè il cinema, quel gigantesco caleidoscopio di immagini, sogni ed ossessioni che l'uomo ha eretto a simulacro eterno della realtà. Marlon Brando è stato il volto, la voce, il corpo di tutto questo. Il resto è Mito.

 
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 Marlon Brando (Il selvaggio)


 



 

 

 

 

 

 

 



 

 

 

 

 

 

 

 


 

Marlon Brando (Il padrino)






 







 
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