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Dossier Kovancina

di Elisabetta Torselli
  Kovancina di Modest Musorgskij
Data di pubblicazione su web 05/10/2004  
Accostatosi alla storia patria già con il fondamentale Boris Godunov, Musorgskij lesse il documento forse più importante della letteratura russa antica, la Vita dell'arciprete Avvákum scritta da lui stesso: la principale fonte sullo scisma dei Vecchi Credenti (capeggiati appunto da Avvákum, 1620 o '21 - 1681, di cui è trasfigurazione il Dosifej di Kovancina) contro il patriarca Nikon, e sui fatti di quegli anni in Russia alla fine del Seicento. Ma poi, nella Kovancina, avrebbe molto alterato o meglio concentrato sia fatti che cronologia; quasi a fare del giovane zar, Pietro - che fu poi detto il Grande e che ai tempi dei fatti narrati era un fanciullo (era la sorellastra a reggere provvisoriamente il trono) - lo strumento di questa spietata stretta della storia della Russia, che annulla e svuota di senso senza risolverlo, con la mano dell'autocrazia e del potere assoluto, un profondo e vitale conflitto tra arcaismo e modernizzazione. Pietro, come Wothan nel Crepuscolo degli Dèi, non lo si vedrebbe mai (non fosse per la regia nel finale di questa Kovancina fiorentina di cui riferiamo), ma se ne sente parlare molto: si sentono squillare le sue trombe; si evoca nei racconti la marcia dei suoi soldati; si annuncia all'ultimo momento la grazia agli strel'zy (un episodio che nella realtà storica avvenne molti anni dopo). Di quest'invisibile, si riferisce solamente una battuta fredda e beffarda alla notizia della velleitaria congiura dei Chovanskij: "E' una chovanscina"; come dire che è una smargiassata.


Kovancina




Come dargli torto? Non può che fallire, questa congiura, se congiura è stata, vista la più che confusa alleanza di chi la promuove: i Chovanskij, ossia Ivan Chovanskij, il boiaro all'antica autoproclamatosi custode e garante dei valori della vecchia Russia, che difende in realtà poteri e privilegi e li difende da Signore della Guerra, con i suoi atroci strel'cy, il corpo d'arcieri creato da Ivan il Terribile che si dicono anch'essi campioni di quella Russia genuina, santa e soprattutto ortodossa (non per niente nella prima scena hanno appena fatto fuori un luterano), e il figlio che egli vorrebbe mettere sul trono, Andrej, che incarna la dismisura amorosa, il lato oscuro del desiderio che si pasce di violenza e di morte (e gli vediamo addosso le stimmate dell'autodistruzione fin dalla prima sua scena); il giovane principe Vasilij Golicyn, che vorrebbe una Russia più vicina all'Europa e si atteggia a riformatore contro il potere feudale dei boiari, ma poi chiama Marfa a leggergli il futuro con un rito pagano e, siccome la predizione non gli è piaciuta, ordina ad un servo di ammazzarla.


Kovancina


Ma non si salva del tutto nemmeno il terzo congiurato, Dosifej, non si salvano nemmeno i suoi, i Raskol'niki, i Vecchi Credenti ribelli alla riforma e "modernizzazione" del culto promossa da Nikon, che ebbero poi dalla loro le simpatie di tutta una letteratura e pubblicistica dove li si descrive come miti ed innocenti anche se magari un po' strambi (penso in particolare ad uno straordinario romanzo breve, L'angelo sigillato di Leskov, uscito quando Musorgskij cominciava a pensare a Kovancina; ma anche negli altri grandi scrittori russi i Raskol'niki sono generalmente tratteggiati con simpatia). Musorgskij ce li presenta mentre su una tortuosa melopea cantano "Abbiamo confutato e sopraffatto i nikoniani! Abbiamo vinto, abbiamo umiliato l'eresia impura e malvagia, l'eresia impura e malvagia del nemico abbiamo sopraffatta", e sulla loro autoimmolazione finale, ci sembra, fa lucidamente cadere il dubbio che tanta sete di purezza e di morte sia non meno rabbiosa e devastante della sete di potenza, di piaceri e di vita del grandioso Ivan Chovanskij. Quanto al popolo, che in qualche modo in Boris incarna anche un principio attivo, non sussistono dubbi sul suo essere passivo, rozzo nell'allegria come nella vendetta (notazione peraltro attenuata dal compassionevole congedo a Golicyn).

A essere materialisti storici vecchio stampo, si potrebbe, e dovrebbe forse, tifare proprio per Pietro il Grande, il normalizzatore, colui che rappresenta il cammino "progressivo" della Storia? Non lo facciamo noi e non lo fa Musorgskij. In ogni caso, l'autore scrive Kovancina, ci sembra, da un punto di osservazione delle vicende umane in cui vibrano altre emozioni morali, spirituali ed estetiche rispetto a quelle che sostanzierebbero una romantica, appassionata, "organica" identificazione con la storia della propria patria; è troppo pessimista per essere romantico. Come nel Boris, gli interessa molto di più il gioco di forze e passioni che sottomette tutti al proprio fato. Forse ancor più che nel Boris, in Kovancina esprime una visione profondamente tragica ma di stampo moderno, positivista, dell'infelicità umana, lucidamente inquadrata nelle sue coordinate storiche ma, oltre la storia, nel tempo più dilatato della natura, perché le passioni e l'istinto di sopraffazione e predazione sono natura e le forme vecchie - la magìa pagana di Marfa a cui anche l'europeista Golicyn crede ciecamente - e nuove del vivere e sentire umano ne sono solo una diversa trascrizione, qui come nei romanzi di Hardy e Verga di cui Musorgskij è coetaneo.


Tuttavia, a qualsivoglia interpretazione della vicenda si aggiunge l'ulteriore reinterpretazione della musica, che vi aggiunge altri dati: sarà anche rozzo e arretrato, questo popolo russo, ma è comunque indelebile l'impressione che lasciano pagine corali rassegnate come quella dei Moscoviti nel primo atto ("Oh, tu, Russia, patria e madre nostra"). Ma l'aspetto critico legato alla musica è il più difficile a definirsi in Kovancina, come in quasi tutto Musorgskij e più che in altre partiture. Anche Boris Godunov è stato conosciuto per decenni grazie alla versione accomodata e riorchestrata da Rimskij-Korsakov. Rimskij provvide anche ad orchestrare il lavoro pianistico più celebre di Musorgskij, I quadri di un'esposizione, ma la sua orchestrazione è stata poi messa in ombra da quella di Ravel. Ma per Kovancina il caso è ancora più difficile. Alla sua morte nel 1881 Musorgskij lasciò infatti l'opera non orchestrata (se non per le canzoni di Marfa e di Kuz'ka del terzo atto) in spartito e incompiuta, senza la chiusa del secondo atto dopo l'ingresso di Saklovityi e soprattutto senza il finale ultimo. Sullo spartito di Kovancina si sono pertanto affaticate molte intelligenze musicali: di Rimskij-Korsakov (la cui versione di Kovancina, per quanto manipolasse pesantemente il lavoro, ha in effetti consentito la conoscenza dell'opera, e ancora nel 1973 a Firenze si fece quella), di Stravinskij e Ravel per il finale in vista della prima parigina curata da Djagilev (1913) e di Dmitri Sostakovic (1959).
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Sostakovic se non altro non poteva non tenere conto degli studi scrupolosi del benemerito Pavel Lamm sui documenti musorgskijani autentici. Riaprì pertanto tutti i tagli effettuati da Rimskij-Korsakov (qui a Firenze si è peraltro fatto a meno della scena del secondo atto, già eliminata da Rimskij-Korsakov, in cui un pastore luterano chiede a Golicyn protezione dalle persecuzioni che i suoi correligionari subiscono nella Russia ortodossa). Sostakovic riscrisse interamente la strumentazione e adottò per il finale la soluzione di riprendere il tema del preludio sulla Moscova, suggerendo un cerchio che si chiude dopo il tragico, volontario autodafé dei Vecchi Credenti; soluzione generalmente considerata ottimista da chi si è occupato di Kovancina, perché la madre Russia, che in quel celebre preludio è come idealizzata, riafferma la propria identità profonda, al di sopra dei torbidi della storia (ma Sostakovic avrebbe anche potuto voler dire che tutto è stato inutile: la gagliardìa di Chovanskij, la passione disperata di Marfa, l'esporsi ambiguo ma in fondo generoso di Golicyn, il sacrificio dei Vecchi Credenti).

E' possibile che questa pregevole orchestrazione moderna d'autore "tradisca" anch'essa Musorgskij, oppure ne valorizzi la modernità... in definitiva, una Kovancina "vera" come l'avrebbe finita e orchestrata Musorgskij non c'è, ma neanche possiamo fare a meno della Kovancina che c'è. Anche chi non ha sottomano il voluminoso "dossier Kovancina", ossia i materiali originali nell'edizione critica di Pavel Lamm e le diverse orchestrazioni e ipotesi di completamento, riconosce infatti come musorgskijane - perché le ha sentite nel Boris ma anche nella versione originale pianistica dei Quadri - certe armonie che suonano antiche nella loro austera configurazione para-modale e sono in realtà modernissime, certi intrecci peculiari di ritmi e disegni che combinano la ieraticità ad un qualche commento aguzzo, certo melodico periodare, diciamo pure alla russa anche se è quasi tutto musorgskijano originale, spirante fatalismo e assieme assoluta forza del sentire. Anzi, le simmetrie profonde e talvolta metricamente irregolari, ma comunque simmetrie, di questo periodare, le sente meglio e assai più distesamente qui che nel Boris (Kovancina è infatti più "cantata" e melodica rispetto al declamato-arioso prevalente nel Boris).

E' già nel bianco e nero dello spartito pianistico, insomma, la realtà della musica assolutamente originale che Musorgskij ha creato, anche se nessuno come lui ha suscitato gli estri dei grandi strumentatori coloristi. Ma come la definiremmo, questa realtà? Claude Debussy ne dette una definizione che sarebbe stata decisiva nella ricezione di Musorgskij: "un art de curieux sauvage qui découvrirait la musique à chaque pas tracé par son émotion". Ma ci potremmo vedere anche operazioni più sofisticate, che interpretano da un'altra Europa, se si vuole da una periferia musicale ancora indefinita, principi ed emozioni dell'estetica e della spiritualità decadentista, primo dei quali il brivido dell'arcaismo. In ogni caso ci sembra oggi riduttivo intendere ancora Musorgskij come un altro grande "barbaro di genio"; ci sembra più interessante la dialettica fra osservazione dall'esterno (se non la famosa impassibilità flaubertiana) e profonda, fatalistica, rassegnata adesione del sentimento al Destino che questa musica comunica.

Per quest'edizione fiorentina in coproduzione con Opéra National de Paris che arrivava al Comunale dopo aver debuttato nel 2001 a Bastille, James Conlon ha adottato l'orchestrazione di Sostakovic; ma ha lasciato in sospeso il secondo atto e non ne ha accettato il finale che si è detto, con il ritorno del preludio, nella sua convinzione che tutti i completamenti finora tentati sono un commento a posteriori all'opera. Proprio il direttore statunitense è stato, fin dal preludio iniziale, l'artefice principale del successo di questa Kovancina, dando rilievo con nobiltà e naturalezza al respiro ed alle qualità della musica e puntando sempre ad una narrazione poetica, fusa, equilibrata ma eloquente, anche quando sopravvenivano le inevitabili difficoltà insite in una realizzazione di Kovancina con masse artistiche italiane, in particolare il coro alle prese con il testo in lingua originale. Il podio era coadiuvato da un cast molto ben assemblato. Elena Zaremba affrontava un personaggio femminile contraddittorio e inquietante e tuttavia di assoluto sbalzo e fascino come quello di Marfa: l'ortodossa ma anche l'idromante capace ancora di pratiche pagane, o forse l'unica vera illuminata, l'unica che per adesione alla natura e alla realtà è capace di leggere i segni della catastrofe; la settaria la cui battaglia per la vita e la vittoria è già perduta e lotta solo per conquistare dentro di sé rassegnazione e distacco dalle proprie passioni; ma anche colei che intercetta e punisce i desideri trasgressivi dell'amato, e alla fine lo trascina sul rogo con sé. A questo personaggio, il giovane ma già affermatissimo contralto è riuscito a conferire ricchezza d'accenti e sfumature nonostante la natura un po' fosca della sua vocalità tipicamente slava e decisamente importante. Vladimir Ognovenko era un Chovanskij vitalissimo, grandioso e beffardo, persino simpatico con tutti i suoi "spasi Bog!" ("grazie a Dio!"); Roberto Scandiuzzi era un Dosifej autorevole, statuario più che terribile e solo pacatamente savonarolesco; Clifton Forbis dava il rilievo della sua bella voce di tenore drammatico alla passionalità violenta e autodistruttiva di Andrej Chovanskij; Robert Brubaker era il tormentato Golicyn; Valeri Alexeev era un eccellente Saklovityi, il mandatario del potere, un "cattivo" (o meglio un cortigiano uso all'intrigo ed alle vie coperte) a cui però Musorgskij assegna una delle pagine più belle e dolenti dell'opera ("Dormi, popolo russo"); Konstantin Pluzhnikov era lo Scrivano; voci e presenze sceniche di rilievo, a cui si aggiungevano i molti ruoli di contorno che questo cast prevede, tutti risolti con professionalità ed efficienza

Meno contribuiva alla riuscita dello spettacolo, rispetto alla componente musicale, la messinscena, più fiacca rispetto all'edizione fiorentina del 1973 passata negli annali del Comunale soprattutto per un'acclamata regia di Franco Enriquez. Le scene e costumi di Richard Hudson e la regia di Andrei Serban oscillavano infatti fra le geometrie e stilizzazioni tipiche della messinscena operistica moderna e un taglio più tradizionale, soprattutto desideroso di rispettare l'ambientazione originale. Forse non a torto, giacché in Kovancina, in questo conflitto fra un impero moderno e una tradizione antica in cui svolge un ruolo di primo piano il fondamentalismo religioso, il gioco dell'attualizzazione sarebbe stato facile quanto rischioso e forse fuorviante. Ne è venuto fuori però uno spettacolo dalla linea un po' incerta, in cui si vedevano cupole dorate a cipolla e austere geometrie minimaliste, tendaggi rossi e betulle stilizzate, camicioni da setta new age e costumi e copricapi tradizionali, alabarde, icone, moltissimi stendardi e una profusione di candele, con solenni ma un po' astratte e non sempre motivate processioni e pantomime di coristi e figuranti, con qualche stranezza (come, nel quarto atto, le popolane impegnate in un curioso rito di mazzuolamento sugli strel'zy sconfitti); impressione rafforzata dalla coreografia di Laurence Fanon per la celebre danza delle Persiane davanti a Chovanskij, parimenti incerta fra esotismo tout-court e tratti attualizzanti o di commento coreografico moderno. Il finale, il rogo, a furia di biancori (i Vecchi Credenti in tunica), fumi e una piccola fiamma attraversante il palcoscenico, finiva in un'atmosfera magari un po' da fantascienza, però poi era suggestivamente risolto con l'immagine finale: uno zar bambino ammantato d'oro che sale su dal proscenio e cammina verso il fondo calpestando le tuniche nere, le ceneri, dei Vecchi Credenti.

Kovancina
dramma musicale popolare in cinque atti


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