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Raccontare cinematograficamente una storia

di Daniela Pecchioni
  Nanni Moretti
Data di pubblicazione su web 05/04/2001  
La stanza del figlio è la prova evidente di come un film perfettamente costruito trovi il suo naturale equilibrio tra dialoghi e immagini. Lasciando allo spettatore la sensazione di osservare, arrivando quasi a viverci dentro, una storia nel suo divenire. Perché il regista costruisce con sapienza i suoi personaggi, in modo da mostrarne, seppur nel breve spazio di un film, i gesti, le parole, le azioni giuste che aiutino a comprenderne l'intera storia, la complessa personalità. Per far meglio entrare lo spettatore in quell'episodio della loro vita che il film isola e racconta.

Quale attenzione e perfezione, dunque, nel descrivere, nella prima parte del film, i quattro protagonisti mostrati nella loro quotidianità apparentemente casuale e nel delinearne le diverse personalità e i rapporti esistenti tra l'uno e l'altro.

Un magnifico montaggio serrato mostra i personaggi in un alternarsi concitato (la madre al mercato improvvisamente urtata da un passante, la ragazza che scherza pericolosamente in motorino, il padre che guida verso la casa del paziente e il ragazzo che sale con muta e bombole sul gommone) che sviluppa, insieme al crescendo musicale, la sensazione di presagio nello spettatore. Ed ecco la tragedia.

La storia da raccontare comincia adesso, ed è la storia di una disgregazione. Ciascuno vive il dolore a modo suo. Non servono molte parole per dirlo. Lo possiamo osservare nei comportamenti di chi è rimasto e non riesce più a vivere come prima, a provare le stesse cose, a stare vicino alle stesse persone. La calma apparente che aleggia in casa i primi giorni, mentre marito e moglie rispondono ai telegrammi di condoglianze seduti alla scrivania, si trasforma presto in disagio, in rimpianti, e poi in rancore. La disgregazione traspare da piccoli gesti, da frasi crudeli, da sfoghi di rabbia improvvisi: le poche note di una canzone ascoltate e ripetute in maniera ossessiva, il rifiuto verso le cose rotte e nascoste che stanno in casa, il rannicchiarsi sul letto gridando di dolore, il 'vomitarsi' addosso le proprie diversità condendole con frasi mai pronunciate prima, come "mi fai pena".

Poi arriva una lettera: una ragazzina che ha conosciuto il figlio in campeggio, d'estate, e ne è un po' innamorata. La madre si appiglia alla missiva morbosamente: un legame imprevisto, un piccolo 'pezzo' del figlio ancora in vita.

Sarà proprio quella ragazzina, il cui nome, forse non a caso, è Arianna, a portare quella famiglia fuori dal labirinto della propria sofferenza. Per una notte, almeno. Una notte di viaggio che fa persino sorridere, per portare lei e un amico sino in Francia, come, sicuramente, avrebbero fatto se al posto di quel ragazzo ci fosse stato il loro Andrea. Un viaggio nel quale la famiglia rielabora, in qualche modo, quel lutto arrivato così all'improvviso. Come se, accompagnando Arianna, ci fosse la possibilità di congedarsi più lentamente, in maniera più serena da quel figlio che non c'è più.

Nessun finale. Nessuna morale. Nessuna voce fuori campo che ci dice cosa accadrà domani. I tre protagonisti si trovano soli, su una spiaggia di confine, all'alba, e silenziosamente passeggiano, ognuno con un ritmo e in una direzione propria. Forse riusciranno ad essere ancora una famiglia, forse no. Non importa.



 
 
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