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La nostra guerra

di Siro Ferrone
  Black Hawk Down
Data di pubblicazione su web 30/03/2002  
La guerra è cominciata da alcuni anni. Forse da quando è caduto il muro di Berlino. Una guerra di cui noi - occidente industriale e tecnologico - occupiamo le retrovie e di cui la periferia costituisce il fronte: non unico, frammentato in tanti spezzoni di combattimento, tutti crudeli e tutti con noi collegati da un sistema d'informazione sempre più tempestivo e puntuale. Anche se non veritiero. Si è scoperto che la tanto celebrata televisione inglese qualche tempo fa ha mandato in onda (Channel Four) servizi sulla guerra serbo-bosniaca artefatti da abili fotografi e spregiudicati drammaturghi. Avevo visto quei filmati e mi erano parsi un esempio di ottimo giornalismo. CNN e consorelle, arabe comprese, hanno trasmesso dirette (o quasi) da Afghanistan e fronti analoghi, con ritmi e con successi degni dei serial più popolari.

Il cinema migliore si è messo in concorrenza con la tv tentando di offrire della terza guerra mondiale in atto un'immagine più vera. L'artificio tenta di sconfiggere l'artificio. La recitazione sfida la falsificazione. La sceneggiatura si confronta con la deformazione giornalistica. La scrittura creativa si oppone alla cronaca e la supera in efficacia documentaria. È il caso di due film molto diversi e tuttavia ugualmente premiati dalla critica americana con riconoscimenti e Oscar: Black Hawk Down di Ridley Scott e No Man's Land di Danis Tanovic.

In entrambe le opere, diverse per stile e per drammaturgia, sebbene l'oggetto apparente della narrazione sia la guerra, il tema sotteso è proprio quello dei media, il rapporto della nostra sensibilità di spettatori di retrovia con la natura materiale di quei conflitti. I due film in questione paiono misurare l'inganno che separa la realtà dell'assassinio di massa dalla coscienza e dalla percezione dei cittadini del mondo "civile" e "intelligente", dalla "cultura" umanistica e illuminata, madre dei sistemi democratici e del diritto liberale.

Due linguaggi diversi suggeriscono analoghi interrogativi morali. Ridley Scott produce un figurazione verista (mdp quasi sempre in soggettiva) e "teatrale" (suoni, effetti, azioni che si infrangono con durezza sullo schermo) orchestrata da un montaggio magistrale che scompone l'unità della narrazione (rare e volutamente calligrafiche le immagini dall'alto del conflitto) in un corpo informe di frammenti visivi costituito da feriti e morituri.


No Man's Land di Danis Tanovic
No Man's Land

È guerra tribale. La si combatte da una parte e dall'altra in uno stato di trance, come una danza macabra, un bagno nel sangue dei compagni e dei nemici. I gesti "civili" (rischiare la vita per recuperare un morto, risparmiare donne e bambini, la foto della moglie nel taschino del marine massacrato) sono intervalli velleitari in un'insania collettiva che si impone nonostante i calcoli strategici del generale americano (avrà studiato a West Point, di sicuro), ben rasato e grintoso, che osserva il teatro delle operazioni attraverso i monitor televisivi. È il drammaturgo della guerra (impersonato dal playwright Sam Shepard). Il suo copione di ferro strategico naufraga e annega nella catastrofe animale e primordiale. Il conflitto tra guerrieri "evoluti" e guerrieri somali (dotati però di armi "evolute") partorisce una sola razza, solidale e uniforme: un unico esercito ubriaco di sangue. I rituali della civiltà applicati a tale orgia omicida appaiono ipocriti, ridicoli e grotteschi come le pretese di Henry Fonda, colonnello d'accademia responsabile della tragica fine dei soldati blu in Il Massacro di Forte Apache di John Ford (Fort Apache, USA, 1948). Come allora, anche adesso ogni "discorso" annega nell'azione meccanica della morte.

Uno sguardo ancor più doloroso, applicato alla ridicola pretesa "civile", in realtà cinica o infantile, di francesi, americani, inglesi e tedeschi di regolamentare il conflitto serbo-bosniaco, è al fondo del film di Danis Tanovic. Qui la guida della rappresentazione è affidata alla drammaturgia e alla recitazione. Anche se è il western - ancora - a suggerire il taglio figurativo della prima metà del film: due soldati nemici feriti e costretti a convivere in una terra di nessuno, spinti l'uno contro l'altro da una sfida senza senso quanto inesorabile, ma anche "tentati" da un istinto di complicità terrena (questa parte del testo e della recitazione fa pensare ai drammi di Pinter); con loro un terzo uomo, ai loro piedi, giace su una mina che esploderà appena tenterà di rialzarsi. Tragico simbolo del destino di questa parte del mondo. E di una tragedia in realtà si tratta, rappresentata in una sostanziale unità di tempo, di luogo e d'azione.

Un'immagine di No Man's Land e C. Amanpour della CNN da Mogadiscio
A sinistra un'immagine di No Man's Land;
a destra Christiane Amanpour (CNN) da Mogadiscio

Il punto di vista esterno - che interviene alla metà del film (l'altra parte del mondo) - è dato dai giornalisti in cerca di vanità e scoop, da telecamere invasive e petulanti (in questi giorni, con analogo cinismo, uno sciacallo femmina della CNN si è avventato su Arafat assediato in Ramallah), ma anche dalla babele linguistica dei militari delle Nazioni Unite, "anime belle" volonterose e generose quanto impotenti. L'incomunicabilità linguistica è l'eco grottesca del dialogo del film di Scott dove verbi sostantivi e aggettivi erano solo bombe, proiettili ed elicotteri. Questo "coro" dell'Europa illuminata dalle leggi della convenzione democratica e liberale, ornata dei fregi del tribunale dell'Aja, è il controcanto grottesco della violenza insensata e animale che si scatena fra i tre protagonisti. Loro parlano con il coltello, la mitragliatrice, la mina antiuomo. E a loro modo vincono. Nel finale, farsa e tragedia si intrecciano di nuovo registrando il trionfo della nostra, letteraria, moralistica, inadeguatezza alla verità del mondo che sta sprofondando.

Quando vedremo i film sull'assedio di Ramallah sarà troppo tardi. Solo la storia, forse, avrà pietà di noi.

(nelle foto sopra tre scene da Black Hawk Down di Ridley Scott)
Altri articoli: No Man's Land


Sam Shepard in Black Hawk Down
Sam Shepard in
Black Hawk Down




J. Wayne e H. Fonda nel Massacro di Forte Apache (Fort Apache, 1948) di J. Ford
J. Wayne e H. Fonda nel Massacro di Forte Apache (Fort Apache, 1948) di J. Ford


























Un soldato israeliano a Ramallah (foto CNN, marzo 2002)
Un soldato israeliano a Ramallah (foto CNN, marzo 2002)

 
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