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Centri storici e degrado

Siro Ferrone
 
Data di pubblicazione su web 03/08/2003  
Recentemente il Prof. Timothy Verdon, canonico del Duomo di Firenze e storico dell'arte, ha sollevato una vivace polemica circa il degrado dei luoghi di culto e artistici della città di Firenze, attaccando l'amministrazione comunale e provocando reazioni di vario genere. Mi piace intervenire in merito anche tenendo conto che da due anni presiedo il Corso di laurea in Progettazione e Gestione dell'Arte e dello Spettacolo che di tali problemi si occupa sul piano didattico e della ricerca.

Devo premettere che, a mio parere, i danni provocati alle opere d'arte da restauratori improvvidi che nel corso del tempo hanno operato, a colpi di calce o di piccone o di idee distorte, sotto l'egida e all'interno del potere religioso (non solo cristiano o cattolico) sono molto maggiori di quelli provocati dai "nuovi barbari". Questi ultimi dispongono di mezzi minori e, proprio perché ignoranti, sono meno sistematici e organizzati.

Detto questo, colpisce, nelle espressioni di disgusto e nei giusti gridi di allarme che si levano circa il degrado delle piazze e dei luoghi d'arte, la costante volontà di non prendere atto di due principali tratti pertinenti della nostra epoca: l'esistenza di una poderosa e inarrestabile alluvione demografica comparabile soltanto alla violenta urbanizzazione che modificò l'assetto delle città fra XVI e XVII secolo; la contemporanea globalizzazione dei consumi, tra i quali non secondari quelli turistico-artistici. Di globalizzazione e di immigrazione si discute molto, ma spesso in maniera astratta e ideologica. Quando ci si trova davanti ai fatti concreti prodotti da quei fenomeni scopriamo l'inettitudine delle nostre idee astratte, anche quando sono nobilissime. Succede come con il razzismo: è facile da condannare come principio, meno facile da contrastare quando si scatena come paura per un pericolo imminente e pratico.
Globalizzazione significa, per quanto riguarda il nostro "mercato" artistico, che il governo del fenomeno sfugge ormai completamente al controllo delle autorità cittadine o regionali (se non nazionali). I pacchetti (percorsi, tempi, modalità) del turismo "culturale" di massa sono dettati da agenzie che spesso risiedono altrove, all'estero: attente al patrimonio aziendale proprio più che al patrimonio culturale altrui. Questi turisti, sciamannati e deportati, "usano e gettano". Il cittadino e l'amministratrore locale raccoglie nessuna risorsa ma solo i rifiuti di quel transito. In un circuito alquanto vizioso sono i commercianti locali che semmai raccolgono qualche utile briciola. Un controllo di questo neo-colonialismo mercantile impone urgenti interventi di negoziato preventivo. Le agenzie turistiche (giapponesi, tedesche o americane) devono adattare la loro logica quantitativa ai bisogni, ai costumi e ai valori della nostra civiltà qualitativa.

Il secondo fattore di degrado delle nostre città d'arte sarebbe, per alcuni, rappesentato dalla presenza incontrollata di emarginati e immigrati poveri che, letteralmente o metaforicamente, trasformerebbeo i nostri bei contri storici in altrettanti cessi. Non credo che tutti i cani che giornalmente disseminano di escrementi i selciati fiorentini siano al seguito di extracomunitari o sbandati. La civile cittadinanza fiorentina si è dimostrata capace di produrre in proprio (e abbandonare sotto il cielo) abbondanti rifiuti del genere. E mi immagino che sarebbe anche pronta a protestare contro il sindaco Domenici perché il personale di Nettezza Urbana non provvede a evacuarli.

Per quanto riguarda i comportamenti degli umani di altro colore e lingua è vero che l'arrivo di popolazioni di culture e costumi lontanissimi dai nostri spesso non si concilia con un corretto uso dell'arredo urbano (e il problema va al di là dei luoghi di culto). E allora? La storia talvolta puzza e non si può modificare con un colpo di deodorante né rimuovere con un ciclo di conferenze sull'arte religiosa del secondo Trecento. Non risulta a nessun storico che la Firenze di Giotto, Donatello, Michelangelo e del Poccetti fosse un club Mediterranée o un'oasi di pulizia: dai chiassi ai bordelli, dai conventi ai chiostri delle chiese (andiamo a rileggere cos'erano il santuario dell'Annunziata o la ruota dei bambini abbandonati agli Innocenti), era un impasto permanente di sporco e di pulitò, di povertà e ricchezza. Miseri vagabondi, malati in cerca di elemosine, immigrati in cerca di ricovero. Grazie all'operosa generosità dei cristiani, laici e religiosi, alla filantropia di qualche mercante, all'ingegno e alla civiltà dei suoi cittadini, non solo la città ha resistito, ma ha consentito che l'arte continuasse e fiorisse.

Quell'arte che per i professori e gli studiosi muniti di robusti deodoranti risiede nei salotti buoni dei musei (è vero ma è solo una parte della verità), ha in realtà bisogno, per sopravvivere e valorizzare anche il suo passato, proprio dello sguardo meravigliato e "inedito" dei nuovi cittadini del mondo. Per il nostro patrimonio artistico conquistare, con faticosa dedizione quotidiana, lo sguardo anche di un solo "barbaro"selvaggio è un investimento morale maggiore che conservare il plauso dei laureati custodi del bello. E' in fondo questo il valore "religioso" dell'arte.

Siro Ferrone
redazione@drammaturgia.it




Il David di Michelangelo
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