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Spettri di Ibsen per la regia di Massimo Castri

Massimo Castri si unisce alla schiera di quei registi italiani che negli ultimi quindici anni, per citare solamente il passato più prossimo, si sono cimentati con Ibsen ed il suo teatro, nello specifico, con Spettri. Il valore dell'opera ben si riassume nelle parole di Giovanni Antonucci, il quale afferma che, per quanto riguarda la finalità ultima dello scritto, "L'obiettivo vero e più ambizioso era di scrivere una tragedia moderna e non un dramma sensazionale a tesi. Lo affermò lo stesso Ibsen in una lettera del gennaio 1882: 'Spettri non si cura di proclamare un bel niente'. Questa dichiarazione dell'autore rende perfettamente credibile e coerente l'interpretazione di Spettri come una tragedia moderna che guarda alla tragedia greca".

Ed è proprio nell'essere di moderno con valenza di auctoritas che va letto il nucleo fondante dell’opera di Spettri. Cosa rappresenta? In una conversazione con il pastore Manders, la signora Alving spiega quello che intende: "Credo quasi" dice, "che tutti quanti siamo degli spettri. Non soltanto quello che abbiamo ereditato dai nostri genitori si aggira in noi. Sono tutte quelle idee vecchie, morte, e ogni sorta di credenze vecchie, morte, e via dicendo. Tutto questo non vive in noi, ma tuttavia è ben saldo, e non riusciamo a liberarcene". Sulla scorta di tali indicazioni, la rappresentazione diretta da Castri si scioglie da ogni vincolo storico ed ambientale per assumere le valenze di modello valido per ogni momento storico, al pari dei classici greci. Ma, per arrivare a tale risultato, il regista deve operare su più livelli, che comprendono la scenografia, le luci, i costumi e, non certo ultime per importanza, la recitazione ed i movimenti scenici.

La rappresentazione si apre su di un interno domestico con, in primo piano, la sala dei ricevimenti e, sullo sfondo, una parte dell'abitazione è adibita a serra. In virtù di tale scelta, la casa dovrebbe essere inondata di calore e colore, ma non è così, perché all'esterno si vede solo una nebbia opaca, che fa sì che la scena sia rischiarata, più che illuminata, da una luce azzurra e ben più fredda di quella elettrica, che sembra farla galleggiare in una sorta di limbo atemporale. La scenografia, composta da mobili scuri ed imponenti, la maggiore parte dei quali coperti da teli bianchi, assume quindi la valenza di luogo abbandonato da molto tempo, che neanche il passaggio degli attori, resi più simili ad ombre imprigionate in un quadro, piuttosto che rappresentanti di una commedia, riesce a riportare del tutto in vita. Ed ecco l'aggancio al nucleo del testo di Ibsen.

I movimenti scenici e l'interpretazione attoriale consentono alla rappresentazione di varcare il limite dello specifico dettato dal contesto ibseniano, per approdare in una nuova dimensione, ove il valore è direttamente collegato con l'attualizzarsi della messa in scena. Nei dialoghi fra due personaggi è visibile una certa rigidità data sia dalla dizione che, soprattutto, dal corpo dell'attore. Sul palcoscenico prendono vita forme geometriche disegnate dagli spostamenti degli attori, la cui mobilità, in alcune scene, è limitata alla parte superiore del corpo: rette, circonferenze e triangoli che hanno il merito di liberare la rappresentazione dai lacci di qualsiasi interpretazione legata a studi e linee-guida temporali. Durante lo scambio di battute viene rappresentato una sorta di duello cavalleresco. I due si spostano seguendo una linea che, seppur fittizia, li porta sempre, malgrado i reciproci tentativi di allontanamento, a porsi l'uno di fronte all'altro. La rigidità di tali movimenti veicola l'idea che ognuno dei due attori incarni una presa di posizione e, quindi, rende possibile parlare di confronto "universale" fra idee e modelli.

L'ingresso in scena di un terzo personaggio dà vita ad una triangolazione in cui quest'ultimo sembra fare le veci del mondo che, impassibile e silente, assiste alla lotta. Ed è proprio tale play within the play che rende cosciente lo spettatore, da un lato del proprio ruolo passivo, dall'altro della ripetitività dell'evento, che prevale rispetto a chi gli permette di essere visto, ossia rispetto alle compagnie che lo portano in scena. Anche la scelta dei costumi può essere, pertanto, letta sotto tale prospettiva. Ad eccezione del vestito del padre fittizio e del breve e quasi fugace passaggio di Osvaldo con la veste da camera rossa, tutti gli attori indossano indumenti di colore nero. In questo modo, in alcune scene durante le quali le luci sono più basse, chi recita sembra quasi, più che mimetizzarsi, uscire dalla scenografia. Il risultato è duplice: da un lato rendono maggiormente incisivo il parlato. Dall'altro, mettono in risalto gli accessori di abbigliamento rossi, sottolineandone la valenza nell'economia della rappresentazione, e l'impatto sui personaggi che li indossano.

Gli oggetti in questione sono: la stola del parroco, le scarpe e la giarrettiera della cameriera ed il cappello di Osvaldo. Nel primo caso il significato implicito è immediatamente fruibile dal pubblico: il parroco teme, sopra ogni altra cosa, le chiacchiere della gente sul suo operato, che siano fondate o meno. Ecco, allora, che i suoi rapporti interpersonali vengono gestiti, non più in base al credo da lui professato, quanto sul filo di un equilibrio che è continuamente rinegoziato, che ha come nodo focale la salvaguardia della sua reputazione, a tutti i costi. Pertanto, la sua missione evangelica diviene un peso, poiché lo espone allo sguardo altrui, segnalato appunto dalla stola rossa, sotto la quale il pastore Manders si ingobbisce, letteralmente, avvertendone il contrasto con la propria natura prudente.

Nel caso della cameriera gli accessori rossi soni quanti mai rivelatori del destino del personaggio che è quello della perdizione sulla strada della prostituzione. Infatti, cosa meglio di un paio di scarpe rosse, sul cui colore molto è già stato scritto, può sottolineare la tendenza di un personaggio al quale sono state riservate un numero di battute inferiore rispetto a quello degli altri? Non, solo, ma anche il mostrare le giarrettiera, indica perfettamente il suo futuro ruolo sociale. Per quanto riguarda Osvaldo, il cappello rosso indossato in una delle ultime scene, ben indica la ferita insanabile che affliggerà la mente del protagonista, rendendolo più simile ad un bambino che ad un adulto.

Dunque, tali elementi, non solo mettono in risalto i colpi inferti dal destino ai personaggi, ma ne preannunciano il futuro. Infatti, con tale chiave di lettura, può essere interpretata anche la vestaglia rossa indossata all'inizio e capire come, il personaggio non sia malato a causa di una malattia mentale, o come colpa paterna che ricade sulle spalle del figlio, come potremmo supporre dalle parole di Osvaldo, ma bensì a causa di un virus venereo che nasce proprio dal totale coinvolgimento del corpo, in questo caso del marito della signora Alving, in un rapporto fisico insano. Osvaldo così, frutto del padre, non può che risultare come intriso di questo "veleno" trasmessogli, che lo porterà a perdere ciò che maggiormente stima: la capacità di pensare, di costruire uno schema logico con le proprie idee.



Carlo Lorini


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